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     Kato Shuichi

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    noraneko
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    MessaggioTitolo: Kato Shuichi   Kato Shuichi Icon_minitimeMar Dic 09, 2008 4:50 pm

    il 5 dicembre all'eta' di 89 anni è scomparso Katō Shūichi, medico, umanista, intellettuale, saggista, critico
    letterario, scrittore, opinionista politico.
    Lo avevo contattato per Mistero Giappone

    così di lui nella laudatio della professoressa Adriana Boscaro

    E’ un onore e un privilegio per me essere qui a parlare di Katō Shūichi, un maestro (sensei) e un amico, e sono grata al Magnifico Rettore, al Preside, alla Facoltà tutta per avermi data questa opportunità che sigla anche un momento importante nella vita della sezione di studi giapponesi di Ca’ Foscari che quest’anno compie 35 anni di vita: non sono molti in assoluto, ma visto che c’ero sin dall’inizio e che il Tempo (quello con la T maiuscola che non guarda in faccia a nessuno) fra non molto mi costringerà all’addio, quale occasione migliore di questa — dopo tante sedute di laurea proprio in questa splendida sala — di avere la soddisfazione di conferirla anche a Katō sensei, dal quale tanto ho appreso?

    Un tardo pomeriggio dell’ormai lontano 1984, Katō Shūichi era seduto alle Zattere e ammirava il tramonto. All’improvviso lo colpì il rosso fiammeggiare del sole che lento poi si oscurava con bagliori più cupi e così, nella migliore tradizione classica del suo paese, un fiotto di pensieri, di ricordi, di assonanze, di richiami, di citazioni turbinò nella sua mente. Chissà quante altre volte aveva visto uno spettacolo simile, dato che, oltre a tutto, abitava lì vicino e che le Zattere erano una meta abituale. Ma quel momento preciso gli restò impresso e poco più tardi, tornato a Tokyo, riversò quelle sue sensazioni nelle colonne di una rubrica che tuttora tiene per lo Asahi shinbun. Gli vengono alla mente le parole di Proust “...veder tramontare il sole sul palazzo dei dogi è come un tramonto in montagna” e, ancora, “... risalendo il Canal Grande, si guardava la fila dei palazzi, fra i quali passavamo, riflettere la luce e l’ora sui loro fianchi rosati e mutare con quelle, non come abitazioni private e monumenti celebri, quanto piuttosto come una scogliera di marmo che si costeggi, la sera, in barca, per vedere il tramonto”. E’ un momento magico, quello del tramonto, in cui la luce del sole acquista, in uno spazio limitato nel tempo, un’intensità che non ha paragone neppure coi momenti più fulgidi della giornata. E’ questo momento, in cui “l’ombra che il mio corpo gettava sulle antiche pietre di Venezia si allungava sempre più”, che KatØ preferisce così come predilige “i toni smorzati che mesi e anni fanno trasudare da una ceramica raku, l’ultimo guizzo di luce su una città in declino, e un tocco di scetticismo nei confronti di qualsivoglia valore. Se c’è un istante della giornata che io associo a questo mio annotare alla rinfusa è proprio quello del crepuscolo”.
    La rubrica alla quale appartengono questi pochi cenni, e che raccolta in volumi è già giunta al quinto, ha come titolo SekiyØ mØgo che, al solito, può avere diversi significati così da rendere incompleta una traduzione. Su sekiyØ come termine non ci sono problemi: vuol dire crepuscolo e resta solo da vedere l’interpretazione dell’autore; ma è mØgo sul quale bisogna soffermarsi. Letteralmente “bugia, falsità”, in prima istanza indica uno dei dieci precetti buddhisti del non fare, in questo caso l’ordine di astenersi dal pronunciare menzogne. Nessun proposito di “mendacità” da parte di KatØ, ovviamente, che però sa benissimo come pensieri e idee possano facilmente essere considerati mendaci se non si conosce il “cuore” di chi li pronuncia. Piuttosto, nel definire così questa sua rubrica si rifà invece a una tradizione letteraria che vede uno dei suoi maggiori esponenti in KenkØ HØshi autore, intorno al 1330, di un’opera intitolata Tsurezuregusa (nota in italiano come Ore d’ozio): una raccolta di pensieri sparsi, di aforismi, di ricordi scritti “seguendo il pennello” come il termine zuihitsu (che qualifica il genere) indica in modo anche visivamente molto appropriato. Nell’incipit KenkØ chiama questo suo errare del pensiero “yoshinashigoto” (cose futili, quisquilie, robetta da niente) e dice (nella traduzione di Marcello Muccioli): “Nelle mie ore d’ozio, seduto davanti al calamaio, vado annotando giorno dopo giorno, senza alcun motivo particolare, ogni pensiero che mi passa per la mente, per quanto futile sia: è una cosa, questa, che mi procura una sensazione davvero strana, simile a una lieve ebbrezza”. Ecco, io me lo vedo, KatØ ShËichi mentre rincorre un pensiero dopo l’altro in preda a questa “ebbrezza”, ovviamente però ben più presente alla realtà dei fatti in quanto non si trova, come KenkØ, in un eremo tra i monti ma proiettato in un mondo che preme da tutte le parti e dove le “opinioni”, come lui preferisce definire “le cose futili” di KenkØ, non hanno mai purtroppo in assoluto un sostegno evidente e tuttavia — ribadisce — non è possibile vivere senza opinioni. In questo suo solo apparente svagato modo di proporre le cose, di offrire considerazioni, di suggerire, le sue opinioni cadono invece come macigni, e su certi argomenti, in particolare di politica, di relazioni internazionali, del ruolo del Giappone nel mondo, hanno avuto un peso considerevole. Questi cinque volumi ci offrono un ventaglio di “opinioni” che toccano temi dei più svariati, a iniziare dalla grande tradizione del passato fino ai problemi del disarmo, con intermezzi sulla cultura pittorica, musicale e artistica europea, di cui KatØ è un fervente ammiratore. Chiunque abbia letto Libro d’ombra di Tanizaki o certe opere di Kawabata oppure il discorso di quest’ultimo per il Nobel, vi ritroverà nelle parti dedicate alla tradizione del suo paese un’affinità particolare per il gusto del non detto, per i tenui confini della penombra che lasciano intuire ma non distinguere, per l’ambiguo riflesso delle ceramiche e delle lacche; chi invece ha seguito le vicende degli ultimi decenni vi ritroverà l’aspro dibattito sull’inquinamento, sulla bomba atomica, sul problema dei sopravvissuti, sul rinnovo dei Trattati, sulle rivolte studentesche, contro la guerra nel Vietnam, così come espresso anche da coloro che gli sono stati al fianco, non ultimo un altro premio Nobel, ÷e KenzaburØ, oppure Abe KØbØ per non citare che nomi noti da noi. Con forza, con determinazione, a tutto tondo, ne esce l’uomo KatØ ShËichi: profondamente scettico ma fondamentalmente ottimista, deciso oppositore di qualsiasi sistema di pensiero chiuso e gretto, un uomo che guarda alla storia con il distacco datogli dall’averne una visione globale, un opinion leader “liberal”, attento a rilevare in modo critico i cambiamenti della società giapponese alla luce anche delle sua esperienza del mondo occidentale, un colto e raffinato poeta che un semplice fiore o un oggetto di ceramica riesce a commuovere, e al contempo, come si è visto, un combattivo sostenitore della de-nuclearizzazione e del disarmo.
    Nasce a Tokyo nel 1919, e nel 1943 si laurea in medicina all’Università di Tokyo dove poi si specializza in ematologia. E’ in questa veste che negli anni ’51-54 sarà a Parigi come borsista. Un sogno lungamente accarezzato, quello di poter vivere in Francia, data la predilezione già da tempo manifestata per la cultura europea. Negli anni universitari una malferma salute lo obbliga a lunghi periodi di inattività, durante i quali legge, tenta di tradurre, commenta i testi prediletti del periodo: Le Cimetière marin e Introduction à la méthode de Léonard de Vinci. L’incontro con le opere di Valéry fu determinante, come lui stesso ci dice nella sua autobiografia (che giunge solo sino al 1968, Hitsuji no uta), di recente tradotta in inglese con il titolo A Sheep’s Song, e con il sottotitolo di A Writer’s Reminiscences of Japan and the World. Pur non ancora in possesso della lingua e potendo usare solo una carente traduzione in giapponese, l’incontro con Valéry gli aprì orizzonti immensi, gli fece capire il potere dell’immaginazione che sfida la verifica, gli dimostrò che esisteva anche
    un tipo di letteratura che aveva a che fare con la dimensione intellettuale, emotiva e sensoriale dell’esperienza umana nella sua totalità, e che quindi era più ricca e più emotivamente pregnante di un certo tipo di produzione autoctona che pur tanto amava come il teatro di Chikamatsu. Così con Valéry fu la volta di Pascal, di Gide e, ovviamente, di Proust. Un gruppo di amici lo andava spesso a trovare durante la convalescenza nella sua casa di Akatsutsumi a Tokyo e nel 1942, a ridosso dei tremendi anni della guerra del Pacifico, assieme a Nakamura Shin’ichirØ, Fukunaga Takehiko e altri, dà vita a un gruppo chiamato “Matinée poétique” dagli incontri di poesia tenuti dalla troupe di Jacques Copeau, il fondatore del Vieux Colombier. Era una provocazione in quanto all’epoca chiunque osasse usare espressioni straniere era bollato come hikokumin (persona non degna dell’appellativo di leale giapponese). Ma noi — osserva KatØ — come i giapponesi del passato si ispiravano alla poesia cinese per creare una loro poesia ‘cinese’ in stile giapponese, tentavamo solo di riprodurre nella nostra lingua il ritmo e la rima della poesia occidentale. Senza grande successo, ammette, ma l’ardore di aprire nuove vie sollecitò altre letture e così fu la volta di Ronsard, Mallarmé, Paul Eluard, Baudelaire e delle Elegie duinesi di Rilke. “Tanto — commentò poi Nakamura — saremmo passati per marxisti anche se avessimo studiato il teatro di Racine”.
    Risparmiato dal servizio militare, visse però tutto l’orrore della distruzione di Tokyo e poi di Hiroshima, dove era stato mandato in qualità di membro di una commissione paritetica che doveva studiare l’impatto della bomba atomica. Pur nella tragedia (il capitolo relativo dell’autobiografia si apre con “In tutta Hiroshima non c’era più un singolo albero”) l’idea che tutto ciò potesse servire a spazzare via anche “menzogne e falsità” gli riempì il cuore di speranza.
    L’opera che fece conoscere al pubblico il medico che aveva ormai deciso di guardare attraverso il suo microscopio non più il tessuto del corpo umano, ma la società in tutte le sue componenti e nel suo divenire fu una raccolta di saggi pubblicata nel 1947 insieme ai due inseparabili amici di “Matinée Poétique”, i già citati Nakamura Shin’ichirØ e Fukunaga Takehiko, dal titolo 1946: una ricerca letteraria (1946: Bungakuteki kØsatsu). Mentre gli altri due si occuparono di tecniche narrative, analizzando, ad esempio, gli scritti di Faulkner e proponendo nuove soluzioni in sostituzione dell’imperante ma poco convincente forma dello shishØsetsu (la narrazione orientata sul soggetto, e detta impropriamente “I-novel” o “Ich Roman”, e che il nostro autore giustamente chiama “the Japanese I-novel”), KatØ si rivolge alle antologie poetiche del passato, e neppure alle maggiori, in quanto solo un certo tipo di poesia riesce a dargli il senso della trascendenza del tempo e toccare le corde più vibranti della sua sensibilità. (Per gli addetti ai lavori sono il SankashË di SaigyØ, il ShËi gusØ di Teika e il KinkaishË di Minamoto no Sanetomo). E in effetti per lui letteratura è poesia, e lo testimonia anche la scelta degli autori moderni a cui ha dedicato i suoi scritti più intensi: Natsume SØseki, Nagai KafË e Ishikawa Jun, la cui presenza letteraria è sopravvissuta indenne, mentre la guerra ha contribuito a spazzare via altre presenze. In un saggio pubblicato nel 1959, “Guerra e intellettuali” (SensØ to chishikijin), come contributo a una serie di ampio respiro sulla formazione e il ruolo dell’intellighenzia (Chishikijin no seisei to yakuwari, Kindai Nihon shisØki kØza 4), in una lucida e stringata disamina sottolinea la differenza tra le prese di posizioni assunte da alcuni scrittori francesi nei confronti del regime e la passiva, oppure talvolta addirittura entusiastica, accondiscendenza degli scrittori e degli intellettuali nipponici durante la guerra del Pacifico: i filosofi della scuola di KyØto, i seguaci della scuola romantica, e nomi come MushanokØji Saneatsu e Takamura KØtarØ.
    Più volte intervistato negli anni, ha sempre dichiarato di essersi deliberatamente tenuto distaccato, ai margini della società, per mantenere la propria integrità e avere così una libertà di espressione altrimenti impossibile e, di conseguenza, di non avere alcun tipo di potere: nonostante ciò, o forse proprio a causa di ciò, è additato come la “coscienza morale del Giappone”. In effetti, al contrario di molti altri intellettuali che tendono a lasciarsi coinvolgere dall’establishment politico e quindi corrono il rischio di perdere la propria indipendenza intellettuale, con ostinazione KatØ ha sempre riaffermato le proprie idee ed è quindi stato attaccato, da destra e da sinistra, accusato di volta in volta di essere filo- e anti-occidentale, di avere posizioni estremiste. Allo stesso modo affronta il quadro generale della letteratura e della cultura giapponese dalle origini ai nostri giorni in quella che è la sua opera più famosa, divenuta un classico, quella Storia della letteratura giapponese ormai tradotta in sette lingue, croce e delizia di generazioni di studenti in gran parte del mondo.


    Ultima modifica di noraneko il Mar Dic 09, 2008 5:02 pm - modificato 3 volte.
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    MessaggioTitolo: Re: Kato Shuichi   Kato Shuichi Icon_minitimeMar Dic 09, 2008 4:50 pm

    Il testo (due volumi nell’originale, tre in alcune traduzioni occidentali tra le quali l’italiana) è uscito nel 1975-80, e nel 1980 ha ricevuto il Premio Osaragi. Il titolo originale suona Nihon bungakushi josetsu (Introduzione alla storia letteraria giapponese) e la differenza con le varie Storia della letteratura giapponese delle traduzioni sta tutto in quel josetsu, “introduzione”, e al valore che KatØ dà al termine bungaku, “letteratura”. Lo spiega già in un articolo di anni prima, pubblicato in tedesco nel 1971, dove lamenta che troppo spesso non si dà spazio a certi generi solo perché non rientrano d’autorità nelle tre canoniche grandi aeree di poesia, fiction, teatro. Questi generi sarebbero: (1) le opere teoretiche di autori buddhisti dei periodi Kamakura e Muromachi (secc. XII-XVI), di confuciani del periodo Tokugawa (sec. XVII-XIX), di marxisti o altro in periodo moderno; (2) i testi in kanbun, cioè in cinese: per il fatto che sono esclusi, per la lingua, da una storia della letteratura giapponese pur essendo opera di giapponesi, va perso un largo contributo alla storia delle idee; (3) gran parte della letteratura popolare (storielle e versi comici, storie di bordelli e così via), pur citata, non è correttamente interpretata nel contesto sociale dell’epoca. Un altro punto molto importante che KatØ si prefiggeva era quello di dimostrare come “la visione indigena di questo mondo” abbia mantenuto autenticità e preminenza nel processo di assimilazione delle ideologie importate (buddhismo, neoconfucianesimo, cristianesimo, e le varie correnti europee moderne) che nel corso dei secoli hanno contribuito a formare quel lato ibrido e stratificato che caratterizza la cultura giapponese. “Visione indigena di questo mondo” è espressione che gli è molto cara, tanto da portarlo a coniare un nuovo termine in giapponese, dochaku sekaikan, una “Weltanschauung indigena, locale”.
    Stralcio dall’introduzione, pagine molto dense che delineano sia la specificità del tema sia la posizione dell’autore: “La letteratura ha avuto in Giappone, per lo meno entro certi limiti, il ruolo che la filosofia ebbe in Europa: quello di veicolo di trasmissione del pensiero”. E’ a questo approccio che mi riferivo quando dicevo, scherzando ma neanche tanto, che il testo è anche una “croce” per gli studenti. Infatti KatØ esamina e dedica largo spazio a opere e autori che raramente rientrano in una storia della letteratura, e per di più non si limita a presentarli, ma sviscera l’argomento a fondo (talvolta più che con alcuni scrittori) creando così delle piccole monografie all’interno dell’opera: e penso alle parti dedicate a KËkai, DØgen e ai monaci zen nel primo volume, a OgyË Sorai, Tominaga Nakamoto, AndØ ShØeki, Miura Baien nel secondo, all’etnologo Yanagita Kunio, al cristiano Uchimura KanzØ, ai pensatori marxisti, e al critico Kobayashi Hideo nell’ultimo volume. Ma a ben vedere sono “delizie” anche queste, proprio perché più rare. Poi ci sono le delizie “vere”, quelle immediatamente palpabili, buttate lì con noncuranza, quasi per caso: squarci improvvisi che connotano un’opera in una riga (“lo Tsurezuregusa è renga in prosa”), personalissime interpretazioni di altre (per rendere le capacità descrittive di Kawabata in Il paese delle nevi dice: “E il lettore sente sulla sua pelle il freddo vento dei monti innevati”), autori tratteggiati in poche parole (“i grandi amori di Kawabata furono le ragazze e la ceramica”). Non voglio dilungarmi e fare un elenco di nomi, ma i brani relativi alla sensibilità dei giapponesi per la natura, al mondo narrativo del periodo Heian con i vari monogatari, al rapporto aristocrazia di corte e aristocrazia guerriera così come traspare dalla produzione artistica, ai problemi dell’occidentalizzazione, al mondo contadino, a quello del teatro e dei quartieri di piacere, delle stampe e della poesia comica dei secoli XVII-XIX, al concetto di individualismo, ai grandi scrittori del periodo Meiji (Natsume SØseki, Mori ÷gai, Nagai KafË), la narrativa del Novecento con Tanizaki, Kawabata, Ishikawa Jun e altri, sono pagine indimenticabili.
    Potrei continuare a lungo, ma temo di dover finire. Non prima però di ricordare un altro testo (tradotto in italiano) che affronta il problema del rapporto tra arte e società (Arte e società in Giappone è appunto il titolo, Fondazione Agnelli, 1991). Facendo ricorso anche a parametri occidentali, di cui è in possesso data la sua frequentazione con l’arte europea, e di quelli cinesi datigli dalla sua cultura classica, affronta alcuni temi fondamentali e li sviscera da par suo. Non ci si attenda però un excursus sulla storia dell’arte giapponese: di nuovo sono yoshinashigoto, “opinioni”, porte con estrema chiarezza e lucida sintesi. Chiudo ora il cerchio ritornando a SekiyØ mØgo, dove mi sembra di ricordare che KatØ citi l’emozione che l’ha colpito davanti ai dipinti di Piero Della Francesca, e quindi vorrei dirgli: se può, sensei, torni ad Arezzo a rivederli nello splendore di un restauro durato quindici anni. Così spero ci regalerà un altro dei suoi affascinanti scritti, per i quali le siamo riconoscenti. Così come la ringraziamo per quel lontano ’83-84, anno indimenticabile, e per essere qui oggi a ricevere l’investitura di cafoscarino, un onore per noi. DØmo arigatØ gozaimashita. Grazie.
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